Ilda Curti
eMemory
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4 min readFeb 3, 2018

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Esistono memorie collettive violate, strumentalizzate, sbranate. Così usurate da zittire le memorie individuali, impedendo loro di ristabilire pezzi di verità e di rendere giustizia all’intimità del ricordo, alle sfumature, alle gradazioni di grigio che ci sono sempre, nei flussi della storia che avanza e travolge.

Io sono cresciuta con la memoria dell’esodo dall’Istria.

Nella mia famiglia antifascista quella memoria è stata costitutiva di identità.

É la memoria della nonna istriana da generazioni — nata austroungarica nel 1914 — vittima dell’occupazione italiana che ricordava lucidamente: la sua tata slovena picchiata dagli avanguardisti con il fez perché non riusciva a parlare italiano. Gli spari, gli scoppi della mitraglia della sua memoria di bambina.

É la memoria delle monetine con l’effige di Cecco Beppe, l’Imperador, che tutti noi neonati di famiglia — tre generazioni comprese le bis nipoti — ricevemmo in regalo alla nascita.

É la memoria del nonno toscano spedito ragazzino con la famiglia al confino a Fiume, a metà degli anni 20, vittima del Regime fascista che reprimeva e isolava gli oppositori (il bisnonno ferroviere socialista, attivista del Biennio Rosso e per questo purgato, bastonato e mandato nella frontiera d’oriente per isolarlo dai compagni di lotta). Vittima nel contempo degli istriani che disprezzavano quei ”regnicoli dei talian”, anche se antifascisti.

É la memoria del racconto del loro amore: lei bionda, alta e bella, lui moro con gli occhi azzurri come il cielo, l’incrocio di sguardi in un parco di Fiume e il matrimonio il 14 febbraio del ‘35, nel giorno di San Valentino. 68 anni insieme, perché è stato davvero un grande amore che ha attraversato il secolo, il millennio, i confini che nel frattempo cambiavano nome. Ed è la memoria dei loro litigi, quando il nonno sbottava ”maledetto D‘Annunzio, se non fosse stato per lui non ti avrei mai incontrata”. 

É la memoria dei Lucich e dei Crevatin — la famiglia istriana dispersa nella diaspora dell’esodo dopo il ‘45 tra Trieste e Gorizia, vittime di Yalta, dei confini della Guerra Fredda e dell’essere minoranza di lingua italiana in una terra in cui stavano da sempre e in cui da sempre erano a casa.

É la memoria dei confini che separano, allontanano e tagliano radici.

Sono cresciuta con i racconti dei meleti di Buje, delle filastrocche in ungherese, dei ciottoli bianchi del Quarnaro e di quel mare dell’Est da cui arrivavano i marinai da oriente per portare sete e spezie da mondi lontani. Con l’istroveneto parlato stretto dalle donne della famiglia per non far capire ai bambini i segreti dei grandi, perché “i fjoi non deve saver tuto”.

É la memoria che mi porto addosso — come tutte noi, tre generazioni di donne istriane — quegli occhi verdi e quegli zigomi alti inconfondibili.

Ma è anche la memoria della vergogna e del silenzio di una storia dimenticata, usata, rimossa o strumentalizzata. Che ha reso una memoria collettiva fatto privato, familiare. Fatto di racconti, sassi bianchi da tenere in tasca, fotografie sbiadite e sospiri della nonna.

Sono cresciuta ascoltando le discussioni dei grandi sul perché dell’oblio. Con una famiglia di sinistra, che ha sempre votato socialista e comunista, che ha coltivato la memoria familiare detestando l’uso fascista di quella storia. Ma soffrendo, però, la rimozione della sinistra di quella storia.

Sono cresciuta con la curiosità di noi bambini per quel muro che separava Gorizia da Nova Gorica, vicino alla casa della zia dove passavamo sempre alcuni giorni di vacanza. E ho pianto con mia nonna quando cadde il muro, nel 2004, e la Slovenia entrò in Europa con le note dell’Inno alla Gioia. “Che bello il futuro, quanto vorrei vivere sempre per vederne ancora”, disse lei, che seppe per tutta la sua lunghissima vita coltivare memoria senza nostalgia.

Portarsi dentro i confini fa crescere con la consapevolezza che le vittime non sono mai colpevoli, che la storia non si ferma davanti ad un portone e che il dovere della memoria è quello di interpretare il presente.

Crescere attraversando i confini insegna a vedere le sfumature. E a non strumentalizzare, mai, le vittime.

In una sua recente, bellissima intervista Rossana Rossanda - ragazza del ‘900- parla delle sue radici istriane e scrive:

“La propria identità uno la sceglie, il resto è caso. Mi manca il mare istriano: nuotare e perdermi del sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me”.

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La Giornata del Ricordo, per me, è memoria di sfumature, di complessità e di punti di vista da non dimenticare. Guardo le foto di quel mondo e so di essere una parte di loro. La memoria si porta addosso, l’identità si sceglie e apre le porte al domani. Perché la memoria è scelta e selezione, altrimenti è prigione.

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Writer for

Expert in local development, urban regeneration policies,, social inclusion, migration studies and cultural issues. Project designer, writer, teacher